San lorenzo Ruiz |
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Lorenzo Ruiz, laico
Domenico Ibáñez de Erquicia, O.P.
Giacomo Kyushei Tomonaga, O.P.
e 13 compagni filippini, martiri in Giappone
Questo gruppo di 16 Martiri, tutti collegati a diverso titolo con l'Ordine dei Frati Predicatori nella Provincia missionaria del S. Rosario sorta nel 1587, fu beatificato il 18 febbraio 1981. Il rito, presieduto da Giovanni Paolo II e celebrato per la prima volta fuori Roma nella storia delle beatificazioni, ebbe luogo a Manila, città con la quale la maggior parte dei Martiri aveva avuto relazione. In modo particolare Lorenzo Ruiz, nativo di quel luogo e protomartire delle Filippine.
Dei 16 Beati, 9 sono giapponesi, 4 spagnoli, 1 italiano, 1 francese, 1 filippino. I sacerdoti domenicani sono 9, i fratelli cooperatori 2, le terziarie 2, e 3 altri laici. Tranne Marina di Omura e Antonio Gonzàlez, tutti morirono sulla collina detta Nishizaka, a Nagasaki, dove già erano stati crocifissi nel 1597 i 26 Santi protomartiri del Giappone, e avevano patito molti dei 205 Beati uccisi tra il 1617 e il 1632.
Essi sono i continuatori di questa schiera (16331637) e con molti altri sono quasi gli epigoni del cosiddetto " secolo cristiano" del Giappone, inaugurato dalla predicazione di S. Francesco Saverio (1549-1650 ca.). Il periodo della loro passione corrisponde al tempo in carica di Tokugawa Yemitsu, shógun o supremo capo militare del Giappone: che il 28 febbraio 1633 e il 22 giugno 1636 aveva emanato due editti per estinguere il cristianesimo in quell'impero. Erano punibili con la sentenza capitale i missionari stranieri o autoctoni, quelli che li ospitavano o che non erano disposti ad abiurare la fede cristiana.
Vari i supplizi con cui venivano torturati i confessori di Cristo durante gli interrogatori presso il tribunale di Nagasaki. Uno consisteva nell'acqua fatta trangugiare violentemente in grande quantità e quindi fatta espellere con altrettanta violenza, con effetto talora di far fuoriuscire il sangue dalla bocca, narici ed orecchie. Un'altra tortura la procuravano punte acuminate di canna di bambù o di ferro conficcate tra i polpastrelli e le unghie delle mani fin quasi a metà dito. Quindi mano ed avambraccio venivano spinti ad urtare contro il suolo. Il tormento più terribile e definitivo fu escogitato appunto durante questo periodo di persecuzione ed era chiamato ana-tsurushi. Il condannato a morte veniva appeso ad un palo con il capo rivolto in basso e con tutto il busto dentro una fossa piena di sudiciume e rinchiusa con tavole di legno che stringevano il corpo all'altezza della cintola. L'appeso con tale sistema era soggetto al deflusso del sangue nel capo con difficoltà a riprendere la circolazione; si sentiva soffocare per la mancanza di aerazione della fossa, resa per di più nauseabonda per il sudiciume che conteneva.
In tali condizioni penosissime il condannato poteva durare da uno a più giorni, secondo le capacità di resistenza fisica. A volte veniva estratto dalla fossa e dalla forca per essere istigato a rinnegare la fede cristiana e quivi rimesso in caso di perseveranza. Sopraggiunta la morte, il cadavere era subito bruciato e le ceneri gettate in mare nel porto di Nagasaki.