Beata Irene Stefani |
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I suoi africani la definirono “Nyaatha”, ‘donna tutta compassione, misericordia, bontà’; per loro era la “madre misericordiosa” e non ne avevano mai trovato un’altra uguale. La missionaria Irene Stefani, quinta dei dodici figli di Giovanni Stefani e Annunziata Massari, nacque ad Anfo nella Val Sabbia (Brescia) il 22 agosto 1891 e al battesimo fu chiamata Mercede. Crebbe nell’ambiente impregnato di viva fede della sua forte e coraggiosa famiglia; ragazza vivace e bella,, dimostrò sin da bambina una spiccata sensibilità per l’apostolato tra i suoi coetanei e familiari, inoltre una tendenza alla carità che sarebbe stata la forte caratterizzazione della sua esistenza. Instancabile, correva dai malati, aiutava gli anziani, pensava ai poveri, riservandosi sempre i lavori più pesanti; desiderosa di amare sempre di più Dio nel prossimo, già a tredici anni Mercede disse ai genitori: “Mi farò missionaria”. Ma il destino fu avverso perché l’immatura morte della mamma, fece ricadere su di lei il compito di educatrice e catechista dei fratelli più piccoli, pertanto la famiglia divenne il suo primo campo di apostolato insieme alla parrocchia. Finalmente a 20 anni, nel 1911, Mercede Stefani poté entrare nell’”Istituto delle Missionarie della Consolata”, ramo femminile fondato nel 1910 dal beato Giuseppe Allamano (1851-1926) a Torino, il quale già nel gennaio 1901 aveva fondato il ramo maschile con la denominazione: “Istituto della Consolata per le Missioni Estere”. Praticamente fu una delle suore dei primi tempi dell’Istituto, il 12 gennaio 1912 vestì l’abito religioso prendendo il nome di Irene, emise la professione religiosa il 29 gennaio 1914 e alla fine dell’anno partì per le Missioni in Kenia,dove allora l’evangelizzazione era agli inizi e quasi inesistenti le scuole e i servizi sanitari. La sua esperienza missionaria, che l’impegnò tutta la vita, si può dividere in due fondamentali tappe, in cui maggiormente si manifestò la sua personalità umana e religiosa. La prima, durata sei anni dal 1914 al 1920, fu quella passata nei cosiddetti ospedali militari, che dell’ospedale avevano solo il nome, locali organizzati alla meglio per i portatori africani, denominati ‘carriers’, arruolati per trasportare materiale bellico al tempo della Prima Guerra Mondiale, che raggiunse anche l’Africa per il coinvolgimento delle colonie inglesi e tedesche. Gli ammalati erano ammassati senza alcun criterio in grandi capannoni, abbandonati a se stessi; in un tanfo insopportabile, giacevano ammalati di ogni genere, anche con mali indefinibili e complicati, in un vociare di tante lingue e dialetti. In questo ‘inferno’ sociale, suor Irene trascorreva le sue giornate di giovane missionaria, negli ospedali di Voi Kilwa e Dar-es-Salaam in Tanzania; lavando, medicando, fasciando piaghe e ferite, distribuendo medicine e cibo, imboccando il più gravi e deboli con una sconcertante delicatezza. La sua personale carità fu capace di addolcire gli animi di medici senza scrupoli, sorveglianti crudeli, increduli musulmani. Imparando le varie lingue riusciva a parlare loro di Gesù, a incoraggiarli e consolarli; fu definita un “angelo di suora”; li preparò al Battesimo e alla fine poté contare circa tremila battesimi amministrati in pericolo di morte. La seconda tappa della sua vita, dal 1920 al 1930, la trascorse nella missione di Gekondi, dedita all’insegnamento scolastico in un ambiente non proprio entusiasta; con la sua vivacità, correva ‘volando’ su e giù per le colline della regione, incontrando gente, invitando alla scuola e al catechismo, curando i malati, assistendo le partorienti, salvando i bambini abbandonati nella brughiera. Istruiva le giovani consorelle giunte da lei per il tirocinio missionario, circondandole di affetto e attenzioni. Pur con le difficoltà di allora, continuò a seguire per corrispondenza, i suoi ‘figli’ africani che si spostavano più lontano, nelle città del Kenia, Mombasa, Nairobi, ecc., facendo anche da tramite con le famiglie. Bruciante dal desiderio di far conoscere Gesù Cristo e il Vangelo, accorreva ovunque incurante della fatica, a volte delle offese e così per anni, finché curando un ammalato di peste, contrasse il micidiale morbo e morì il 31 ottobre 1930 a soli 39 anni, dei quali 18 trascorsi tutti in Kenia. E unanime fu il dolore dei suoi africani nel piangerla, essi dicevano che non era stata la malattia a farla morire, ma il grande amore che nutriva per loro. Suor Irene Stefani non è stata dimenticata e tutti hanno esultato per l’avvio nel 1985 della causa di beatificazione, che attualmente è in avanzata fase presso la competente Congregazione Vaticana. I suoi resti mortali sono tumulati nella cappella della Parrocchia di Mathari, Nieri (Kenia), affidata ai Missionari della Consolata.
E' stata proclamata Venerabile il 2 aprile 2011.