pastorelli copia 2Francesco

Il santo Francesco Marto nacque ad Alijustrel, nella parrocchia di Fatima, l'11 giugno 1908; è il penultimo degli undici figli di Emanuele Pietro Marto e Olimpia di Gesù. Con la sorellina Giacinta e la cugina Lucia sarà il terzo protagonista delle apparizioni del 1917.
Alla fine del 1918 Francesco e Giacinta furono irrimediabilmente colpiti dall'epidemia di broncopolmonite, la terribile "spagnola", che seminò tanti morti in tutta l'Europa. La malattia lo rendeva così debole da non aver più la forza di recitare il Rosario. Egli sapeva perfettamente che sarebbe morto e tale certezza gli veniva da quanto la "Bianca Signora" aveva detto a Fatima nell'apparizione del 13 giugno 1917: "Vorrei chiedervi di portarci in cielo", domandò Lucia alla Vergine, a nome suo e dei cugini. "Sì, Giacinta e Francesco li porterò presto", fu la risposta, "ma tu devi restare qui ancora un po' di tempo". Durante la malattia Francesco si mostrò sempre allegro e contento. Quando Lucia gli domandava se soffriva molto, egli così rispondeva: "Abbastanza, ma non fa niente, soffro per consolare il Signore, e poi tra poco vado in cielo!". Nel febbraio 1919 le sue condizioni peggiorarono visibilmente e fu deciso di farlo rimanere a letto, assistito quasi sempre da Giacinta. Un giorno i due bambini mandarono a chiamare Lucia che, appena entrò da loro, disse: "La Madonna è venuta a trovarci e dice che presto tornerà a prendere Francesco per condurlo in Cielo". Il 2 aprile lo stato di salute di Francesco era così aggravato che fu chiamato il parroco per confessarlo. Egli temeva di morire senza poter ricevere la prima Comunione e questo pensiero gli causava una grande pena. Ma il parroco lo accontentò somministrandogli per la prima volta l'Eucarestia la sera stessa. L'indomani Francesco diceva alla sorellina Giacinta: "Oggi sono più felice di te, perché ho Gesù nel mio cuore". E insieme si misero a recitare il santo Rosario. A notte salutò Lucia, dandosi un arrivederci in Cielo. Poi disse alla madre: "Guarda, mamma, che bella luce là, vicino alla porta!... Adesso non la vedo più...". Il suo volto si illuminò di un sorriso angelico e, senza agonia, senza contrazione, senza un gemito, spirò dolcemente erano le 10 di sera. Ancora non aveva 11 anni.


Messaggero di preghiera e penitenza


Lucia descrive Francesco come un bambino vivace, ma non capriccioso, aveva un carattere pacifico; nei giochi, se sorgeva qualche discussione, lui cedeva senza resistere; era di poche parole e anche per fare la sua preghiera e offrire sacrifici gli piaceva nascondersi perfino dalla sorella e da Lucia. Quando andava a scuola, arrivando a Fatima, gli piaceva restare in chiesa "vicino a Gesù", come egli diceva: "Per me non vale la pena di imparare a leggere, fra poco vado in Cielo. Quando torni da scuola vieni a chiamarmi". Francesco Marto non fu solo l'ambasciatore di un invito alla preghiera e penitenza, ma con tutte le forze si sforzò di incarnare nella sua vita tale messaggio, che proclamò al mondo più con le opere che con le parole. Non perdeva nessuna occasione per unirsi alla Passione di Cristo e così cooperare alla salvezza delle anime, alla pace nel mondo e alla crescita della Chiesa. L'altra pietra miliare del suo apostolato fu la preghiera: sentì che la sua missione era di pregare incessantemente secondo le intenzioni della Madonna. Nutrì una speciale devozione all'Eucarestia e trascorreva molto tempo in chiesa ad adorare il Santissimo Sacramento, che chiamava "Gesù nascosto". Ogni giorno recitava i quindici misteri del S. Rosario e spesso ne aggiungeva altri per soddisfare i desideri della Vergine. Pregava per consolare Dio, per onorare la Madre del Signore, per suffragare le anime del Purgatorio, per sostenere il Sommo Pontefice nella sua missione di pastore universale; pregava per le necessità del mondo sconvolto dall'odio e dal peccato. La fama di santità, già goduta in vita, si consolidò e si accrebbe dopo la sua morte; molti fedeli e devoti, dopo averlo invocato, dichiaravano di essere stati esauditi. Il 13 maggio 1989 (72° anniversario di Fatima) il Papa proclamò l'eroicità delle virtù di Francesco e Giacinta e successivamente approvò e promulgò l'autenticità di un miracolo attribuito alla loro intercessione.
Infine, Giovanni Paolo II li ha proclamati Beati, proprio a Fatima, luogo delle apparizioni.


Giacinta

La Chiesa ha meditato molto prima di elevarla alla gloria degli altari, non perché si avesse qualche dubbio sulla sua vita cristallina, ma perché fior di teologi cercavano di mettersi d’accordo su una questione non di poco conto: se cioè a 10 anni non ancora compiuti le virtù possono essere vissute in grado eroico, come è appunto richiesto ad ogni cristiano che viene proposto alla venerazione dei fedeli come beato o santo. Alla fine ogni dubbio si è sciolto, anche perché il buon Dio ha messo più di una firma (i miracoli, richiesti per portare qualcuno “sugli altari”) sulla santità di questa bambina. Non dunque per aver avuto sei apparizioni della Madonna, ma perché queste l’hanno aiutata a raggiungere la perfezione cristiana, noi oggi abbiamo la gioia di festeggiare il 20 febbraio la Beata Giacinta Marto, una delle tre veggenti di Fatima, che il Papa ha elevato alla gloria degli altari insieme al fratellino Francesco il 13 maggio 2000. Tutto inizia un altro 13 maggio di 83 anni prima, quando la Madonna le appare per la prima volta (ha appena 7 anni, perché è nata l’11 marzo 1910), mentre è al pascolo con il fratello Francesco e la cuginetta Lucia. E’ quest’ultima (morta il 13 febbraio 2005 sulla soglia dei 98 anni) a testimoniare che Giacinta fino a quel giorno è una bambina come tutte le altre: le piace giocare, come a tutti i bambini di quell’età; è un po’ permalosa, fa il broncio per un nonnulla e non si rassegna tanto facilmente a perdere; le piace ballare e basta il suono di un piffero rudimentale per far fremere e roteare il suo piccolo corpo. La Madonna irrompe nella sua vita e la cambia radicalmente: medita a lungo sull’eternità dell’inferno e “prende sul serio i sacrifici per la conversione dei peccatori”, si priva anche della merenda per soccorrere i bambini di due famiglie bisognose, si innamora del Papa che vorrebbe tanto incontrare a tu per tu, la sorprendono spesso in preghiera fatta con uno slancio di amore sicuramente superiore alla sua età. Qualsiasi sofferenza offerta per la conversione dei peccatori è sempre accompagnato da un amore che si riscontra solo nei più grandi mistici.
Il 23 dicembre 1918, 14 mesi dopo l’ultima apparizione, lei e Francesco vengono colpiti dalla “spagnola”, ma mentre quest’ultimo si spegne in pochi mesi, per Giacinta il calvario è più tormentato perché sopraggiunge una pleurite purulenta, da lei sopportata e offerta “per la conversione dei peccatori e per riparare gli oltraggi che si fanno al cuore immacolato di Maria”. Un ultimo grande sacrificio le viene chiesto: staccarsi dai suoi e soprattutto dalla cugina Lucia, per un ricovero nell’ospedale di Lisbona. Dove si tenta di tutto, anche un intervento chirurgico senza anestesia per tentare di strapparla dalla morte, ma dove la Madonna viene serenamente a prenderla il 20 febbraio 1920, come aveva promesso

ignazio1 copiaIl primo scritto che racconta la vita, la vocazione e la missione di s. Ignazio, è stato redatto proprio da lui, in Italia è conosciuto come “Autobiografia”, ed egli racconta la sua chiamata e la sua missione, presentandosi in terza persona, per lo più designato con il nome di “pellegrino”; apparentemente è la descrizione di lunghi viaggi o di esperienze curiose e aneddotiche, ma in realtà è la descrizione di un pellegrinaggio spirituale ed interiore. Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia un paese basco, nell’estate del 1491, il suo nome era Iñigo Lopez de Loyola, settimo ed ultimo figlio maschio di Beltran Ibañez de Oñaz e di Marina Sanchez de Licona, genitori appartenenti al casato dei Loyola, uno dei più potenti della provincia di Guipúzcoa, che possedevano una fortezza padronale con vasti campi, prati e ferriere. Iñigo perse la madre subito dopo la nascita, ed era destinato alla carriera sacerdotale secondo il modo di pensare dell’epoca, nell’infanzia ricevé per questo anche la tonsura. Ma egli ben presto dimostrò di preferire la vita del cavaliere come già per due suoi fratelli; il padre prima di morire, nel 1506 lo mandò ad Arévalo in Castiglia, da don Juan Velázquez de Cuellar, ministro dei Beni del re Ferdinando il Cattolico, affinché ricevesse un’educazione adeguata; accompagnò don Juan come paggio, nelle cittadine dove si trasferiva la corte allora itinerante, acquisendo buone maniere che tanto influiranno sulla sua futura opera. Nel 1515 Iñigo venne accusato di eccessi d’esuberanza e di misfatti accaduti durante il carnevale ad Azpeitia e insieme al fratello don Piero, subì un processo che non sfociò in sentenza, forse per l’intervento di alti personaggi; questo per comprendere che era di temperamento focoso, corteggiava le dame, si divertiva come i cavalieri dell’epoca. Morto nel 1517 don Velázquez, il giovane Iñigo si trasferì presso don Antonio Manrique, duca di Najera e viceré di Navarra, al cui servizio si trovò a combattere varie volte, fra cui nell’assedio del castello di Pamplona ad opera dei francesi; era il 20 maggio 1521, quando una palla di cannone degli assedianti lo ferì ad una gamba. Trasportato nella sua casa di Loyola, subì due dolorose operazioni alla gamba, che comunque rimase più corta dell’altra, costringendolo a zoppicare per tutta la vita. Ma il Signore stava operando nel plasmare l’anima di quell’irrequieto giovane; durante la lunga convalescenza, non trovando in casa libri cavallereschi e poemi a lui graditi, prese a leggere, prima svogliatamente e poi con attenzione, due libri ingialliti fornitagli dalla cognata. Si trattava della “Vita di Cristo” di Lodolfo Cartusiano e la “Leggenda Aurea” (vita di santi) di Jacopo da Varagine (1230-1298), dalla meditazione di queste letture, si convinse che l’unico vero Signore al quale si poteva dedicare la fedeltà di cavaliere era Gesù stesso. Per iniziare questa sua conversione di vita, decise appena ristabilito, di andare pellegrino a Gerusalemme dove era certo, sarebbe stato illuminato sul suo futuro; partì nel febbraio 1522 da Loyola diretto a Barcellona, fermandosi all’abbazia benedettina di Monserrat dove fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi vestendo quelli di un povero e fece il primo passo verso una vita religiosa con il voto di castità perpetua. Un’epidemia di peste, cosa ricorrente in quei tempi, gl’impedì di raggiungere Barcellona che ne era colpita, per cui si fermò nella cittadina di Manresa e per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo poveramente presso il fiume Cardoner “ricevé una grande illuminazione”, sulla possibilità di fondare una Compagnia di consacrati e che lo trasformò completamente. In una grotta dei dintorni, in piena solitudine prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri “Esercizi Spirituali”, i quali costituiscono ancora oggi, la vera fonte di energia dei Gesuiti e dei loro allievi. Arrivato nel 1523 a Barcellona, Iñigo di Loyola, invece di imbarcarsi per Gerusalemme s’imbarcò per Gaeta e da qui arrivò a Roma la Domenica delle Palme, fu ricevuto e benedetto dall’olandese Adriano VI, ultimo papa non italiano fino a Giovanni Paolo II. Imbarcatosi a Venezia arrivò in Terrasanta visitando tutti i luoghi santificati dalla presenza di Gesù; avrebbe voluto rimanere lì ma il Superiore dei Francescani, responsabile apostolico dei Luoghi Santi, glielo proibì e quindi ritornò nel 1524 in Spagna. Intuì che per svolgere adeguatamente l’apostolato, occorreva approfondire le sue scarse conoscenze teologiche, cominciando dalla base e a 33 anni prese a studiare grammatica latina a Barcellona e poi gli studi universitari ad Alcalà e a Salamanca. Per delle incomprensioni ed equivoci, non poté completare gli studi in Spagna, per cui nel 1528 si trasferì a Parigi rimanendovi fino al 1535, ottenendo il dottorato in filosofia. Ma già nel 1534 con i primi compagni, i giovani maestri Pietro Favre, Francesco Xavier, Lainez, Salmerón, Rodrigues, Bobadilla, fecero voto nella Cappella di Montmartre di vivere in povertà e castità, era il 15 agosto, inoltre promisero di recarsi a Gerusalemme e se ciò non fosse stato possibile, si sarebbero messi a disposizione del papa, che avrebbe deciso il loro genere di vita apostolica e il luogo dove esercitarla; nel contempo Iñigo latinizzò il suo nome in Ignazio, ricordando il santo vescovo martire s. Ignazio d’Antiochia. A causa della guerra fra Venezia e i Turchi, il viaggio in Terrasanta sfumò, per cui si presentarono dal papa Paolo III (1534-1549), il quale disse: “Perché desiderate tanto andare a Gerusalemme? Per portare frutto nella Chiesa di Dio l’Italia è una buona Gerusalemme”; e tre anni dopo si cominciò ad inviare in tutta Europa e poi in Asia e altri Continenti, quelli che inizialmente furono chiamati “Preti Pellegrini” o “Preti Riformati” in seguito chiamati Gesuiti. Ignazio di Loyola nel 1537 si trasferì in Italia prima a Bologna e poi a Venezia, dove fu ordinato sacerdote; insieme a due compagni si avvicinò a Roma e a 14 km a nord della città, in località ‘La Storta’ ebbe una visione che lo confermò nell’idea di fondare una “Compagnia” che portasse il nome di Gesù. Il 27 settembre 1540 papa Polo III approvò la Compagnia di Gesù con la bolla “Regimini militantis Ecclesiae”. L’8 aprile 1541 Ignazio fu eletto all’unanimità Preposito Generale e il 22 aprile fece con i suoi sei compagni, la professione nella Basilica di S. Paolo; nel 1544 padre Ignazio, divenuto l’apostolo di Roma, prese a redigere le “Costituzioni” del suo Ordine, completate nel 1550, mentre i suoi figli si sparpagliavano per il mondo. Rimasto a Roma per volere del papa, coordinava l’attività dell’Ordine, nonostante soffrisse dolori lancinanti allo stomaco, dovuti ad una calcolosi biliare e a una cirrosi epatica mal curate, limitava a quattro ore il sonno per adempiere a tutti i suoi impegni e per dedicarsi alla preghiera e alla celebrazione della Messa. Il male fu progressivo limitandolo man mano nelle attività, finché il 31 luglio 1556, il soldato di Cristo, morì in una modestissima camera della Casa situata vicina alla Cappella di Santa Maria della Strada a Roma. Fu proclamato beato il 27 luglio 1609 da papa Paolo V e proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV. Si completa la scheda sul Santo Fondatore, colonna della Chiesa e iniziatore di quella riforma coronata dal Concilio di Trento, con una panoramica di notizie sul suo Ordine, la “Compagnia di Gesù”.

Le “Costituzioni” redatte da s. Ignazio fissano lo spirito della Compagnia, essa è un Ordine di “chierici regolari” analogo a quelli sorti nello stesso periodo, ma accentuante anche nella denominazione scelta dal suo Fondatore, l’aspetto dell’azione militante al servizio della Chiesa. La Compagnia adattò lo spirito del monachesimo, al necessario dinamismo di un apostolato da svolgersi in un mondo in rapida trasformazione spirituale e sociale, com’era quello del XVI secolo; alla stabilità della vita monastica sostituì una grande mobilità dei suoi membri, legati però a particolari obblighi di obbedienza ai superiori e al papa; alle preghiere del coro sostituì l’orazione mentale. Considerò inoltre essenziale la preparazione e l’aggiornamento culturale dei suoi membri. È governata da un “Preposito generale”. I gradi della formazione dei sacerdoti gesuiti, comprendono due anni di noviziato, gli aspiranti sono detti ‘scolastici’, gli studi approfonditi sono inframezzati dall’ordinazione sacerdotale (solitamente dopo il terzo anno di filosofia), il giovane gesuita verso i 30 anni diventa professo ed emette i tre voti solenni di povertà, castità e obbedienza, più in quarto voto di obbedienza speciale al papa; accanto ai ‘professi’ vi sono i “coadiutori spirituali” che emettono soltanto i tre voti semplici. Non c’è un ramo femminile né un Terz’Ordine. La spiritualità della Compagnia si basa sugli ‘Esercizi Spirituali’ di s. Ignazio e si contraddistingue per l’abbandono alla volontà di Dio espresso nell’assoluta obbedienza ai superiori; in una profonda vita interiore alimentata da costanti pratiche spirituali, nella mortificazione dell’egoismo e dell’orgoglio; nello zelo apostolico; nella totale fedeltà alla Santa Sede. I Gesuiti non possono possedere personalmente rendite fisse, consentite solo ai Collegi e alle Case di formazione; i professi fanno anche il voto speciale di non aspirare a cariche e dignità ecclesiastiche. Come attività, in origine la Compagnia si presentava come un gruppo missionario a disposizione del pontefice e pronto a svolgere qualsiasi compito questi volesse affidargli per la “maggior gloria di Dio”. Quindi svolsero attività prevalentemente itinerante, facendo fronte alle più urgenti necessità di predicazione, di catechesi, di cura di anime, di missioni speciali, di riforma del clero, operante nella Controriforma e nell’evangelizzazione dei nuovi Paesi (Oriente, Africa, America). Nel 1547, s. Ignazio affidò alla sua Compagnia, un ministero inizialmente non previsto, quello dell’insegnamento, che diventò una delle attività principali dell’Ordine e uno dei principali strumenti della sua diffusione e della sua forza, lo testimoniano i prestigiosi Collegi sparsi per il mondo. Alla morte di s. Ignazio, avvenuta come già detto nel 1556, la Compagnia contava già mille membri e nel 1615, con la guida dei vari Generali succedutisi era a 13.000 membri, diffondendosi in tutta Europa, subendo anche i primi martiri (Campion, Ogilvie, in Inghilterra). Ma soprattutto ebbe un’attività missionaria di rilievo iniziata nel 1541 con s. Francesco Xavier, inviato in India e nel Giappone, dove i successivi gesuiti subirono come gli altri missionari, sanguinose persecuzioni. Più duratura fu la loro opera in Cina con padre Matteo Ricci (1552-1610) e in America Meridionale, specie in Brasile, con le famose ‘riduzioni’. Più sfortunata fu l’opera dei Gesuiti in America Settentrionale, in cui furono martiri i santi Giovanni de Brebeuf, Isacco Jogues, Carlo Garnier e altri cinque missionari. Col passare del tempo, nei secoli XVII e XVIII i Gesuiti con la loro accresciuta potenza furono al centro di dispute dottrinarie e di violenti conflitti politico-ecclesiatici, troppo lunghi e numerosi da descrivere in questa sede; che alimentarono l’odio di tanti movimenti antireligiosi e l’astio dei Domenicani, dei sovrani dell’epoca e dei parlamentari e governi di vari Stati. Si arrivò così allo scioglimento prima negli Stati di Portogallo, Spagna, Napoli, Parma e Piacenza e infine sotto la pressione dei sovrani europei, anche allo scioglimento totale della Compagnia di Gesù nel 1773, da parte di papa Clemente XIV. I Gesuiti però sopravvissero in Russia sotto la protezione dell’imperatrice Caterina II; nel 1814 papa Pio VII diede il via alla restaurazione della Compagnia. Da allora i suoi membri sono stati sempre presenti nelle dispute morali, dottrinarie, filosofiche, teologiche e ideologiche, che hanno interessato la vita morale e istituzionale della società non solo cattolica. Nel 1850 sorse la prestigiosa e diffusa rivista “La Civiltà Cattolica”, voce autorevole del pensiero della Compagnia; altre espulsioni si ebbero nel 1880 e 1901 interessanti molti Stati europei e sud americani. Nell’annuario del 1966 i Gesuiti erano 36.000, divisi in 79 province nel mondo e 77 territori di missione. In una statistica aggiornata al 2002, la Compagnia di Gesù annovera tra i suoi figli 49 Santi di cui 34 martiri e 147 Beati di cui 139 martiri; a loro si aggiungono centinaia di Servi di Dio e Venerabili, avviati sulla strada di un riconoscimento ufficiale della loro santità o del loro martirio. L’alto numero di martiri, testimonia la vocazione missionaria dei Gesuiti, votati all’affermazione della ‘maggior gloria di Dio’, nonostante i pericoli e le persecuzioni a cui sono andati incontro, sin dalla loro fondazione.

 

(fonte: www.santiebeati.it)

cura brocheroLa famiglia e la vocazione José Gabriel del Rosario Brochero nacque nei pressi di Santa Rosa de Río Primero (vicino Córdoba, in Argentina) probabilmente il 16 marzo 1840, sebbene sembra che sia stato registrato all’anagrafe un giorno dopo, quando ricevette il Battesimo. I suoi genitori, Ignacio Brochero e Petrona Dávila, avevano già accolto altri tre figli e in totale ne ebbero dieci; due femmine, tra l’altro, entrarono tra le Figlie di Maria Santissima dell’Orto, fondate da sant’Antonio Maria Gianelli. Un suo amico, il politico Ramón José Cárcano, scrisse di averlo spesso udito raccontare che la sua preoccupazione costante era il sacerdozio, anche se a lungo fu incerto se intraprenderlo o meno. Un giorno, angosciato da quel pensiero, partecipò a una predica dove si prospettava ciò che la vocazione sacerdotale e quella laicale esigevano. Appena finì di ascoltarlo, il dubbio non lo tormentava più: aveva deciso, senza ripensamenti, di diventare prete.

La formazione e il primo incarico Così, José Gabriel entrò nel Collegio Seminario «Nuestra Señora de Loreto» il 5 marzo de 1856, a sedici anni. Il 16 luglio 1862 ricevette la tonsura e i quattro Ordini Minori. Venne ordinato suddiacono il 26 maggio 1866 e diacono il 21 de settembre dello stesso anno. Poco prima, il 26 agosto 1866, aveva aderito al Terz’Ordine Domenicano. Infine, il 4 novembre 1866, fu ordinato sacerdote dal vescovo José Vicente Ramírez de Arellano. Destinato come collaboratore pastorale presso la Cattedrale di Córdoba, si prodigò durante l’epidemia di colera che colpì la città nel 1867 e mieté più di quattromila vite. In qualità di Prefetto agli Studi del Seminario Maggiore, ottenne il titolo di Maestro in filosofia presso l’Università di Córdoba il 12 novembre 1869.

Parroco di San Alberto Il 18 novembre 1869, padre José Gabriel venne incaricato della cura d’anime della parrocchia di San Alberto. Il 24 dicembre partì da Córdoba e, dopo tre giorni di viaggio a dorso di mulo, arrivò a destinazione. Si trattava di una parrocchia di poco più di diecimila anime, sparse su quattromilatrecentotrentasei chilometri quadrati, popolata da gauchos, contadini e briganti, dove le comunicazioni erano quasi impossibilitate dalla mancanza di strade e dalla presenza delle Sierras Grandes.

Vicino alla sua gente L’anno successivo al suo arrivo, prese ad accompagnare uomini e donne a Córdoba per far compiere loro gli Esercizi Spirituali. Le carovane, che superavano a volte le cinquanta persone, erano spesso sorprese da tormente di neve. Dopo quei giorni di ritiro, molti decidevano di cambiar vita. Per non affaticarli ulteriormente, padre José Gabriel pensò di fondare una casa per gli Esercizi più vicina, a Villa del Tránsito (dal 1916, in suo onore, si chiama Villa Cura Brochero), la cui costruzione, supportata dai fedeli, durò dal 1875 al 1877. Ad essa fece seguito, nel 1880, una scuola per le bambine. Si diede da fare anche nelle sedi politiche e civili: fece costruire strade ed esortò le autorità ad aprire uffici postali e scuole. Tutto per i suoi amati parrocchiani, «abbandonati da tutti, ma non da Dio», come era solito ripetere. Prima di queste costruzioni, però, faceva venire la predicazione del Vangelo. Portava con sè il necessario per la Messa, accompagnato dalla sua fedele cavalcatura. Nemmeno il freddo o la pioggia lo facevano desistere dal portare i sacramenti agli ammalati: «Altrimenti il diavolo mi ruba un’anima», spiegava. Alla sua gente rendeva chiara la fede anche con curiosi paragoni: a suo dire, Dio era come i pidocchi perché si attaccava ai poveri e non ai ricchi.

Parroco a Villa del Tránsito La sua salute, diventata malferma, lo obbligò, dopo trent’anni, a rinunciare al suo incarico. Il 24 aprile 1898 accettò, esclusivamente per motivi di salute, il canonicato della cattedrale di Córdoba, offertogli dal vescovo, e lasciò quindi la parrocchia il 30 maggio. Ma il 25 agosto 1902 venne nuovamente nominato parroco a Villa del Tránsito, compiendo di nuovo la presa di possesso il 3 ottobre, previa rinuncia del canonicato.

La malattia e la morte Riprese le sue visite ai parrocchiani, al punto da rischiare la vita: dopo aver condiviso del “mate”, la tipica bevanda argentina, con alcuni lebbrosi, contrasse il loro morbo. Diventato sordo e praticamente cieco, il 5 febbraio 1908 rinunciò formalmente alla parrocchia; il 30 marzo tornò a Córdoba e andò a vivere, con le sue sorelle, a Santa Rosa de Río Primero, la sua città natale. Non vi restò per molto: sollecitato dai suoi vecchi parrocchiani, tornò a Villa del Tránsito nel 1912, preoccupandosi dell’opera che aveva sospeso, ossia l’installazione di una linea ferroviaria. Infine, il 26 gennaio 1914, rese l’anima a Dio. Le sue ultime parole, pronunciate in dialetto, furono: «Ora ho gli attrezzi pronti per il viaggio» («Ahora tengo ya los aparejos listos pa’l viaje»).

Il processo di beatificazione La fama di santità di padre Brochero, perdurata a distanza di anni, portò alla richiesta di aprire il processo di beatificazione. Ottenuto il nulla osta da parte della Santa Sede il 17 marzo 1967, il processo ebbe una fase informativa nell’arcidiocesi di Córdoba (dal 6 novembre 1968) e una rogazionale nella diocesi di Cruz del Eje, territorio dove il Servo di Dio era deceduto (dal 6 gennaio 1970 all’8 dicembre 1972). La solenne conclusione di entrambe si svolse il 5 giugno 1974, mentre il decreto sugli scritti giunse il 3 marzo 1979, dopo aver superato i dubbi di alcuni dei censori teologi: ritenevano, infatti, che il suo stile fosse troppo basso e addirittura sgrammaticato. L’opinione finale fu che tale modalità di scrittura non fosse altro che un ulteriore tentativo di presentare il Vangelo con un linguaggio realmente accessibile. Il 19 aprile 2004 papa Giovanni Paolo II firmò il decreto con cui veniva riconosciuta l’eroicità delle sue virtù. Quando gli fu raccontato chi era, il Pontefice, stando ai vescovi di Cruz del Eje e Santa Fé, commentò: «Allora padre Brochero sarebbe il Curato d’Ars dell’Argentina».

Il miracolo e la beatificazione Nel febbraio 2009 venne avviata a Córdoba un’inchiesta circa un presunto miracolo, avvenuto a un bambino, Nicolas Flores, finito in punto di morte per un incidente stradale subito il 28 settembre 2000; venne dichiarata valida il 7 maggio 2010. Ottenuto il parere favorevole della commissione medica (7 maggio 2010) e di quella teologica (10 maggio 2011), seguita da una riunione dei periti teologici (7 luglio 2011), mancava solo l’ultimo atto. Il 20 dicembre 2012, infine, papa Benedetto XVI ha firmato la dichiarazione con cui il miracolo era ufficialmente riconosciuto, aprendo pertanto la via alla beatificazione. La cerimonia, presieduta dal delegato pontificio, il cardinal Angelo Amato, si è svolta a Villa Cura Brochero il 13 settembre 2013. La memoria liturgica è stata fissata al 16 marzo. I suoi resti mortali sono invece venerati nel santuario della Madonna del Transito, a Villa Cura Brochero.

Il secondo miracolo e la canonizzazione Come secondo miracolo da esaminare per la canonizzazione è stato preso in considerazione il caso di Camila Brusotti, una bambina originaria della città di San Juan, all’epoca di nove anni. La sera del 30 ottobre 2013 fu portata in ospedale in braccio alla madre, Alejandra Ríos, che affermò che era caduta da cavallo. In realtà riportava lesioni multiple dovute a percosse, delle quali fu accusato inizialmente il suo patrigno Pedro Oris, ma in seguito fu incarcerata e processata anche la mamma. Dopo 45 giorni di coma, durante i quali i nonni materni chiesero l’intercessione del Beato don Brochero, la piccola si riprese. Il 10 settembre 2015 la Consulta medica della Congregazione delle Cause dei Santi ha dato il proprio parere favorevole, seguito il 3 novembre dello stesso anno da quello della commissione teologica. Ottenuto anche quello dei cardinali e vescovi membri della Congregazione, il 21 gennaio 2016 papa Francesco, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui la guarigione di Camila è stata dichiarata miracolosa. Nel Concistoro del 15 marzo 2016 ha annunciato che la canonizzazione del Beato José Gabriel del Rosario Brochero è stata fissata a domenica 16 ottobre 2016, insieme a quella di altri sei Beati.

 

(fonte: www.santiebeati.it)

kateri tekakwithaKateri è la prima beata pellerossa d’America a salire agli onori degli altari, primo fiore d’innocenza cristiana. Nacque presso Fort Orange, odierna Albany nel 1656 da genitori di due etnie diverse, il padre irochese pagano e la madre algonchina cristiana.
Nel 1660 scampò all’epidemia di vaiolo che però le lasciò il volto sfigurato e una grave menomazione alla vista, segni che le procurarono una vita sociale difficile fra la sua gente. Rimasta ben presto orfana fu presa con sé da uno zio con l’incarico di aiutare la moglie nel governo della casa, il suo nome Tekakwitha le fu dato perché significa “colei che mette le cose in ordine”.
Negli Stati Uniti è ricordata il 14 luglio.Giunta in età da marito respinse proposte di matrimonio, nel 1675 alcuni missionari cattolici francesi del Canada, giunsero nel suo villaggio, la loro conoscenza e la religione che professavano, l’affascinarono al punto che circa un anno dopo ricevé nel giorno di Pasqua del 1676 il santo Battesimo, le fu imposto il nome di Kateri (Caterina).
Per sfuggire alle ire dello zio pagano dovette riparare nella Missione di s. Francesco Saverio a Sault presso Montreal, dove ricevé la Santa Comunione e iniziò una vita di preghiera e straordinaria pietà. Senza trascurare le funzioni religiose e gli obblighi verso la famiglia che l’ospitava, Kateri si isolava spesso nella foresta a pregare, recitava il santo Rosario al mattino nel grande freddo del Canada, girando intorno alla propria campagna coltivata a mais, completando le sue orazioni nella piccola cappella del villaggio.
Il 25 marzo 1679 fece voto di perpetua verginità, sottoponendosi a pesanti penitenze. Distrutta dalla malattia e dai patimenti, morì il 17 aprile 1680 a soli 24 anni; dopo la sua morte scomparvero dal viso i segni del vaiolo.
E’ stata beatificata il 22 giugno 1980 da papa Giovanni Paolo II.

 

(fonte: www.santiebeati.it)

lorenzoForse da ragazzo ha visto le grandiose feste per i mille anni della città di Roma, celebrate nel 237-38, regnando l’imperatore Filippo detto l’Arabo, perché figlio di un notabile della regione siriana. Poco dopo le feste, Filippo viene detronizzato e ucciso da Decio, duro persecutore dei cristiani, che muore in guerra nel 251. L’impero è in crisi, minacciato dalla pressione dei popoli germanici e dall’aggressività persiana. Contro i persiani combatte anche l’imperatore Valeriano, salito al trono nel 253: sconfitto dall’esercito di Shapur I, morirà in prigionia nel 260. Ma già nel 257 ha ordinato una persecuzione anticristiana. Ed è qui che incontriamo Lorenzo, della cui vita si sa pochissimo. E’ noto soprattutto per la sua morte, e anche lì con problemi. Le antiche fonti lo indicano come arcidiacono di papa Sisto II; cioè il primo dei sette diaconi allora al servizio della Chiesa romana. Assiste il papa nella celebrazione dei riti, distribuisce l’Eucaristia e amministra le offerte fatte alla Chiesa.

Viene dunque la persecuzione, e dapprima non sembra accanita come ai tempi di Decio. Vieta le adunanze di cristiani, blocca gli accessi alle catacombe, esige rispetto per i riti pagani. Ma non obbliga a rinnegare pubblicamente la fede cristiana. Nel 258, però, Valeriano ordina la messa a morte di vescovi e preti. Così il vescovo Cipriano di Cartagine, esiliato nella prima fase, viene poi decapitato. La stessa sorte tocca ad altri vescovi e allo stesso papa Sisto II, ai primi di agosto del 258. Si racconta appunto che Lorenzo lo incontri e gli parli, mentre va al supplizio. Poi il prefetto imperiale ferma lui, chiedendogli di consegnare “i tesori della Chiesa”. Nella persecuzione sembra non mancare un intento di confisca; e il prefetto deve essersi convinto che la Chiesa del tempo possieda chissà quali ricchezze. Lorenzo, comunque, chiede solo un po’ di tempo. Si affretta poi a distribuire ai poveri le offerte di cui è amministratore. Infine compare davanti al prefetto e gli mostra la turba dei malati, storpi ed emarginati che lo accompagna, dicendo: "Ecco, i tesori della Chiesa sono questi". Allora viene messo a morte. E un’antica “passione”, raccolta da sant’Ambrogio, precisa: "Bruciato sopra una graticola": un supplizio che ispirerà opere d’arte, testi di pietà e detti popolari per secoli. Ma gli studi (v. Analecta Bollandiana 51, 1933) dichiarano leggendaria questa tradizione. Valeriano non ordinò torture. Possiamo ritenere che Lorenzo sia stato decapitato come Sisto II, Cipriano e tanti altri. Il corpo viene deposto poi in una tomba sulla via Tiburtina. Su di essa, Costantino costruirà una basilica, poi ingrandita via via da Pelagio II e da Onorio III; e restaurata nel XX secolo, dopo i danni del bombardamento americano su Roma del 19 luglio 1943.